MAMMA A CARICO – mia figlia ha 90 anni
Gianna coletti
“Non me lo so spiegare – continua Gianna – devo dire che la vita mi ha riservato grandi sorprese e tutto questo grazie alla mia “vecchia”. Mia madre mi ha fatto dannare per 50 e passa anni, però alla fine mi ha dato una grande soddisfazione”
Mamma a carico è la personale storia tra una figlia che diventa madre della propria madre, fenomeno generazionale che coinvolge sempre più donne alle prese con i loro genitori.
ATTENZIONE
non vogliamo che passi il messaggio che se i nostri genitori, se la fanno addosso, diventino realmente i nostri figli!
Il titolo, Mamma a carico – Mia figlia ha 90 anni, come tiene a precisare Gianna;
è un’iperbole.
Accudire chi prima ci ha accuditi, chi ci ha aiutato a diventare adulti è una lotta impari contro il tempo. La vecchiaia è il periodo più difficile da vivere.
I figli crescono i vecchi no.
Sto tornando a casa.
Mia madre è con me in una cassettina di metallo che tengo sulle ginocchia.
Nell’ultimo periodo me lo ripeteva spesso:
“sono nelle tue mani”
Gianna come fare ad accompagnare i nostri genitori nel loro ultimo viaggio?
Se uno ha la possibilità bisognerebbe tenere i propri genitori a casa. Lo Stato dovrebbe aiutare le persone in difficoltà economica, perché non tutti si possono permettere un badante o due, quando è necessario.
Se una figlia lavora come fa? Sei costretto per forza a metterlo in una casa di riposo. Però se si riesce a tenere i propri genitori a casa ti aiuta, ti aiuta a vivere bene dopo.
È vero lo fai per loro, ma anche per noi stessi, lo si fa.
Per questo ho preferito tenere la mia “vecchia” con me, aiutata da due badanti.
Una sola volta ho pensato, sperando di farle riacquistare l’uso delle gambe, di farla ricoverare presso una“nota” struttura di Milano. Come si dice:
“La speranza è l’ultima a morire”
Mia madre è sempre stato una persona agitata, evidentemente in queste “strutture” le persone anziane le vogliono estremamente tranquille, estremamente dormienti così da non disturbare il reparto, soprattuto non disturbare gli infermieri (!!!).
Come conseguenza, me l’hanno bombardata di psicofarmaci, sonniferi e non solo.
Nel frattempo mi ero presa due giorni di vacanza da passare a Trieste con mio marito. Dopo la prima notte passata a pensare come stava la mia “vecchia”, la mattina vengo svegliata da una telefonata che mi avvisava che mia madre era stata ricoverata al pronto soccorso. In un primo momento non sapevano di cosa si trattasse, pensavano avesse avuto un ictus e che sarebbe morta nel giro di poco. Mi sono precipitata da Trieste a Milano, non ti dico con quale ansia e angoscia. Arrivata a Milano, trovo mia madre ancora in vita.
“Caspita mi ha aspettato per darmi l’ultimo saluto”
Passavano le ore e mia madre migliorava sempre più. Successivamente le fecero gli esami del sangue ed in effetti fu riscontrata un’altissima dose di calmanti.
Questo per dire che se si ha la possibilità, sarò ridondante, di curare i propri vecchi a casa è meglio. Non sopporto le persone che dicono:
“Si però in una casa di riposo c’è il dottore, sono seguiti…”
a parte che i dottori vengono anche a casa tua e poi in queste “strutture”, nonostante vengano “seguiti”, le pieghette sulla pelle, a causa dell’immobilità, a mia madre le sono venute ugualmente!
Mentre a casa mia il sedere della mia “vecchia” era splendido.
“Giannina ti ho nelle vene”
Le era venuta fuori una vena poetica, diceva cose stupende anche se a volte mi esasperava perché mi chiamava continuamente.
“Gianna. Gianna. Giannina.
Mi fa male il culo”
Appunto!
“Mi fa male e sai perché?
Perché non vado di corpo”
Piccole fissazioni che la facevano stare malissimo.
“Gianna. Gianna. Giannina”
Non smetteva mai di chiamarmi.
“Mi piace il tuo nome”
Tutti i dialoghi, tra me e mia madre, nel libro, sono stati tagliati ed è un peccato, un vero peccato perché oltre ad essere molto divertenti facevano capire il rapporto che si instaura tra una madre e sua figlia, rapporto basato anche sul dialogo.
Tenere viva la loro attenzione, sempre.
“Gianna. Gianna. Giannina.
Regalami una bambola.”
Voleva una bambola e non capivo il perché.
“Per avere qualcuno a cui volere bene”
Qui diventava la perfida che è sempre stata;
“ma scusa, mamma, a me non mi vuoi bene?”
“… si, ma tu a me ne vuoi di bene?”
Quando rispondeva così mi faceva mancare il terreno sotto i piedi.
“Gianna. Gianna. Gianna”
Continuava a chiamarmi era una forma di delirio.
“Gianna. Aiuto.
Gianna, Aiuto”
Andava avanti ore e ore, era talmente forte il dolore… alla fine sbottai:
“Tu non sei stata così con tua madre!”
Le rinfaccia l’ultimo giorno di vita.
“… bugiarda. Non è vero”
Ebbe il coraggio di dirmi, con l’ultimo fiato che le era rimasto.
Poi la situazione andò peggiorando. Sapere che queste sono state le ultime frasi che ci siamo dette, non mi fa stare bene, mi spiace moltissimo… è che…
Ci interrompiamo, Gianna ha le lacrime agli occhi, il ricordo è ancora vivo.
.. ho sempre avuto paura del pianto.
Invece devo dire che sono stata brava, non mi ha mai sentito piangere, mai con la voce rotta in gola, mi sono sempre fatta sentire serena vicina a lei.
Anche dopo il crollo di mia madre ero andata in fissa:
“Cavolo vuoi vedere che all’ultimo momento mi metto a piangere?”
Invece no, negli ultimi tre giorni di vita ero dolcissima, ho sempre cercato di tranquillizzarla, di farla sentire serena.
tratto da : http://www.starssystem.it/lifestyle/book/gianna-coletti/
Gianna Coletti
“Madre a carico”
(un pensiero di Valeria Gramolini)
…e poi ci sono i vecchi. Ci sono i pannoloni imbrattati, i cateteri, le piaghe da decubito, i deambulatori, le fisioterapie, le demenze, le notti in bianco, le urla, gli ospedali, il dolore…
E POI CI SONO I VECCHI…E poi saremo vecchi e un pò di tutto questo toccherà anche a ciascuno di noi.
Quanto di tutto ciò che avremo seminato raccoglieremo? Quante di quelle cure che avremo riversato sui figli ci torneranno indietro, come se l’amore fosse un bene dato in prestito?
“I figli si fanno per questo”, ecco ciò che ho sentito dire un giorno da mia madre.
Certamente, a mano a mano che gli anni passano, chi sente avvicinarsi la fine si raccomanda ogni giorno di più a coloro che invece, presumibilmente, resteranno da queste parti ancora per un po’. A volte saranno rabbiosi, impazienti, avidi di attenzioni e tiranni, altre diventeranno docili come agnellini pur di ricevere una coccola e non sentirsi soli ed abbandonati.
Si raccoglie ciò che si semina, se tutto va bene. E chi non ha seminato se la prenderà in quel posto.
Creperà solo, in un buco di casa in affitto, dopo aver speso fino all’ultimo centesimo in badanti non sempre morigerate o motivate, o creperà in compagnia di altri vecchi dementi in qualche ospizio mal tenuto, strattonato da infermieri stanchi di avere a che fare con padelle puzzolenti e grida notturne, per uno stipendio da fame, per tutta la vita lavorativa e senza altra prospettiva.
Ah…, l’amore!
E’ un investimento sicuro l’ AMORE?
Quanti di coloro che si sono promessi di restare uniti, non solo nella buona ma anche nella cattiva sorte, manteranno fede a quel nobile proposito nel momento in cui il piacere se ne andrà e resterà solo il dovere?
Occuparsi degli altri non è cosa da tutti, anche se ci animano i migliori sentimenti, se impariamo a dosare le forze, a modulare la generosità con il distacco emotivo. Occorre una marcia in più per reggere situazioni penose che si protraggono per anni, come oggi accade sempre più di frequente.
Quand’anche assistessimo padri o madri o consorti non più autosufficienti spinti da vero amore e non da senso del dovere, per farlo, dobbiamo in primo luogo star bene noi stessi e non solo in salute. Dobbiamo cioè essere psicologicamente forti, immuni da depressioni o facili contagi, come accade agli individui molto sensibili o impressionabili, i quali sovente assumono su di sè le sofferenze di coloro che assistono. Come si potrebbe altrimenti reggere nel tempo lo strazio di una malattia infinita, come una paralisi, una demenza, un Alzhaimer?
C’è un abisso tra la dichiarazione d’intenti, quale quella espressa dalla canzone di Battiato ”…ed io avrò cura di te” e l’effettiva capacità di metterla in pratica. Mi sembra assai più verosimile, per rimanere in campo canoro, l’altra di Modugno “…il vecchietto dove lo metto…?” divenuto ormai una specie di mantra per mia madre, la quale lo canticchia rabbiosamente tra i denti quando vuole rivendicare attenzioni disattese o tristemente rimugina su quanto le resterà ancora da vivere.
Un tempo i vecchi erano una risorsa, oggi sono una zavorra. Un tempo la vecchiaia equivaleva a saggezza, ora è sinonimo di problema. I miei nonni, pur in tarda età, hanno fatto presto ad andarsene. Non hanno fatto in tempo a rendersi insopportabili, perciò li abbiamo amati senza l’ombra della stanchezza e pianti perchè sapevamo che ci sarebbero mancati.
Oggi, al contrario, è proprio la possibilità di cure lunghe ed estenuanti a trasformare la volontà di bene in motivo di sofferenza e prigionia per tutti. Un cavallo azzoppato si abbatte, farlo con un essere umano ci procura la galera. Egli è condannato a vivere , condannato a tenere legati al suo capezzale, per un tempo indefinito, figli, nipoti e assistenti. Costo elevato per il servizio sanitario pubblico, diventa motivo di reddito per chi non ha altro e che spesso è animato solo dal bisogno di lavoro e non da pietà umana.
Oggi neppure per una famiglia allargata, simile alle grandi famiglie di un tempo, è semplice avere a che fare con disabili o vecchi troppo malmessi. Il soccorso, la solidarietà, la condivisione del peso attraverso l’alternanza nella cura, per quanto motivo di un certo alleggerimento, non sono di per sè garanzia di un’assistenza di qualità quando il protrarsi di quella vita, che non può più chiamarsi tale, raggiunge una durata stratosferica, superando a volte di gran lunga i cento anni.
Figuriamoci quando tutto questo capita ad una persona sola, senza mezzi economici o senza il supporto di un contesto sociale che la sostiene nella fatica fisica e mentale!
Non a tutti capita di avere, pur nella sfortuna di dover badare ad una madre vecchia e gravemente ammalata, un compagno che ci dà una mano, un’amica che sbriga per noi le questioni burocratiche assistenziali, la vicinanza di un gruppo di volontariato o la semplice capacità di barcamenarsi tra tutte queste cose.
Non a tutti capita, come all’autrice di questo libro, una madre che suscita ilarità e sa farsi voler bene, un’amica regista pronta a trasformare la vicenda dolorosa in denuncia sociale, una propria personale abilità a trarre, da quella sofferenza, le pagine belle e intense di un libro che suscita il favore del pubblico, soprattutto se si eredita dalla propria madre un’ accattivante leggerezza.
A volte, e credo neppure troppo raramente, toccano in sorte genitori incapaci di amare veramente, i quali piuttosto avvelenano l’esistenza dei figli con il loro egoismo. (Ma perchè poi si fanno i figli?)
Quando ciò accade allora, quell’inversione di ruolo per la quale le figlie diventano madri e i figli padri dei propri vecchi, rischia di diventare un’occasione di vendetta, un modo per regolare i conti, anche economici, oltre che morali. Quel rapporto difficile e malsano, mai messo in crisi dalla presenza di altre figure famigliari naturali o acquisite, e quindi mai diluito in un legame più maturo e meno esclusivo, diventa una vera e propria morsa che strangola.
Chi deve andarsene, perchè è giunta la propria ora, vuole egoisticamente portarsi via anche chi resta.
Anche la madre dell’autrice esprime più volte questa necessità, sorta dalla comprensibile paura della morte, a cui si aggiunge lo smarrimento dovuto alla sua totale cecità.
Donna estremamente vitale, energica, spiritosa, ma anche autoritaria, non si rassegna a terminare i suoi giorni e lotta fino alla fine, anche se ora deve affidarsi agli altri totalmente e mettersi nelle mani della figlia, la quale è combattuta tra senso del dovere ed autentica pena da un lato e rifiuto di quell’accudimento dall’altro. Esso infatti la priva della libertà e le impedisce non solo la realizzazione dei suoi desideri, ma anche la più elementare normalità.
Gianna finisce per non avere più una vita sua. In totale simbiosi con la sofferenza della madre, è presa nella morsa di un atroce conflitto, il quale la conduce sul lettino dello psicoanalista a rivangare le origini di quel legame così forte, che non riesce a gestire in maniera più distaccata.
Prende coscienza che ciò che è oggi è il risultato di un amore materno viscerale, a cui sente di dover tributare un’altrettanta viscerale devozione. Se oggi è una donna di spettacolo, se canta, suona, balla e recita lo deve alla determinazione con cui sua madre l’ha voluta plasmare, certamente secondo i suoi gusti, ma anche a costo di grandi sacrifici. Lei si è lasciata fare ed ora quella è la sua vita ed il suo pane.
Perciò Gianna non si risparmia, lo fa nello stesso modo in cui, prima di lei, l’aveva fatto sua madre.
Con il sostegno del suo compagno ed i giusti aiuti, che forse in una città come Milano sono un pò più presenti che nelle nostre piccole realtà di paese, come il super attrezzato “hospice” e le cure domiciliari, regge fino alla fine, cioè fino a quando di tutta quella montagna di sentimenti e di emozioni non resterà che una cassettina con le ceneri della donna.
Polvere eravamo e polvere ritorneremo.
Allora, alla luce della nostra finitezza, non rimane che riconsiderare l’intero valore della vita umana, trasformandola da campo di battaglia per una qualche supremazia in un’oasi verdeggiante d’amore, dove trovino posto accoglienza, perdono, gratuità, condivisione, non attaccamento, gratitudine.Anche chi resta deve imparare a lasciar andare.
Nei cinque anni in cui ho svolto mansioni di assistenza domiciliare mi sono trovata a fare gli stessi sogni della vecchietta a cui badavo, ed un’altra è morta tra le mie braccia. Rivedo ancora la paura nei suoi occhi ed il conforto che le diede quell’abbraccio con cui andò un pò più distesa incontro alla morte.
Non riuscii a farlo a lungo quel mestiere, a quel tempo ancor meno retribuito che oggi. Soprattutto non ce la facevo sul piano psicologico, essendo la mia esistenza già abbastanza infelice di suo. Ero completamente soggiogata dalla sofferenza di quelle persone, la facevo totalmente mia per una sorta di esagerata empatia di cui sono tuttora vittima, ma credo d’aver capito cos’è la pietà. Ogni essere umano dovrebbe farne esperienza almeno una volta, soprattutto da giovane, quando l’energia vitale permette di non farsene fagocitare.
Avere compassione significa sì soffrire con l’altro, ma non per l’altro, al posto dell’altro.
Dobbiamo ripeterci continuamente “io ti sto accanto, ma non m’identifico con te. Posso aiutarti a portare la tua croce per un breve tratto, ma essa non è la mia croce.” Solo differenziandosi da chi si assiste si può reggere. Si interpreta una parte, ma non si è il personaggio che si interpreta, come suggerisce il medico omeopata a Gianna. E ciò vale sempre, nei confronti di ogni essere umano a cui si offre aiuto, sia esso un consanguineo, un amico o un estraneo.
Certamente una società più amorevole e meno basata sul profitto renderebbe tutto ciò molto più semplice. Invece siamo costretti a sperare in badanti coscienziose, ospizi, strutture assistenziali di dubbia funzionalità.
E tuttavia, visto che la nostra società invecchia più di quanto si rinnovi e che la disoccupazione non demorde, porre mano alla questione della cura e dell’assistenza facendo interagire i due problemi, diventa una necessità assoluta. Però occorre farlo bene, cioè dedicarvi tempo, energie ed immaginazione.
In primo luogo credo che non si debba mai rimanere soli e quindi ciò che amministrazioni e forze sociali dovrebbero promuovere è prima di tutto la sensibilizzazione collettiva verso il disagio esistenziale di chi ci vive accanto, anche se non è un familiare. Insomma non guardare dall’altra parte quando si sta bene, nè starsene tappati in casa per pudore o paura di dare fastidio quando si sta male.
Ecco qui di seguito alcuni punti che potrebbero essere sviluppati:
* Educare all’empatia le nuove generazioni, prospettando l’assistenza come opportunità di lavoro serio, professionale ed adeguatamente retribuito, con la copertura dello Stato a sostegno delle fasce economicamente più deboli.
* Fare in modo che questo compito così delicato sia svolto da persone motivate non solo dal bisogno di lavoro ma anche dalla sensibilità personale
* Escludere da incarichi assistenziali quanti si trovino essi stessi in situazioni personali particolarmente problematiche e difficili da gestire, perche ne graverebbero l’equilibrio psichico
* Cercare di eliminare i fattori di stress, come orari impietosi o turni di lavoro massacranti.
* Promuovere investimenti pubblici e privati in centri diurni, strutture riabilitative, case-famiglia piccole, accoglienti e diffuse, in alternativa a grandi anonimi ospizi, al fine di non stradicare gli assistiti dai territori di appartenenza
* Creare villaggi, comunità o quant’altro di nuova concezione, che possa servire ad affrontare le difficoltà esistenziali attraverso pratiche di mutuo-aiuto
* Cercare soluzioni preventive alla sofferenza fisica e psichica.
* Sollecitare una maggiore diffusione delle cure lenitive, anche attraverso la legittimazione di sostanze stupefacenti, nelle patologie senza guarigione.
* Affrontare finalmente il discorso sull’eutanasia.
Il delizioso libro di Gianna Coletti, attraverso il coraggioso racconto del suo personale vissuto famigliare, ci dà la possibilità di riflettere su quella che è una delle questioni più problematiche dei nostri tempi. Ne è stato anche tratto un film, che sarebbe opportuno visionare pubblicamente.
All’autrice va tutto il mio plauso non solo per aver affrontato tutta la spinosa faccenda, ma anche per averlo fatto con leggerezza ed ironia, senza per questo nascondere nulla della sua drammaticità.
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