Decapitati i miei quattro compagni, un indio – non so se uno dei due che aveva ucciso gli altri, non riuscivo più a distinguerli – mi ha levato il cappuccio, e prima di decapitarmi ha studiato per bene la mia testa. Mi ha scrutato da vicino, come una belva davanti alla preda. Dopodiché è indietreggiato di qualche passo, senza staccarmi gli occhi di dosso, e ha proferito una frase che poi ha iniziato a ripetere senza interruzione: “Kulumanè-Jajary-Karai, Kulumanè-Jajary-Karai…” (pag. 87)

Altri indios ripetono la stessa frase incomprensibile e non uccidono Ugolino.

selvaggi si prendono cura di Ugolino, lo nutrono, gli costruiscono una capanna, e una donna, che lui chiama Giorgina, come il perduto amore veneziano, lo ama senza alcuna remora per il suo aspetto. Il mostro italico è il miracolo amerindio. Ugolino scopre di essere considerato il tramite tra gli uomini e gli dei, i Karai, le divinità del fuoco, che lo hanno marchiato e consacrato: diventa il protettore della comunità quando riesce «a fermare il fuoco che stava distruggendo un pezzo di foresta e rischiava di divorare l’intero villaggio».